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Il particolare di uno dei fogli delle Note Operative di The Burning Cemetery, l’opera-azione concepita dall’autore contro le guerre, la militarizzazione di Vicenza, la retorica della memoria. A monte e a valle di note operative ci sono sempre nodi teorici da risolvere o da cui si è partiti – anche inconsapevolmente – per giungere all’azione.

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PER UNA CIVILTÀ DELLE RELAZIONI. DI FIDUCIA, PROSSIMITÀ E INDOMESTICITÀ. INTERSEZIONALE

Abbiamo scelto il termine relazione per il prevalere dell’accezione positiva – concreta – rispetto a quella negativa – astratta – nel seme della parola. Una relazione, un riferirsi ad altro, un legame, per quanto difficile o sottile, è sempre meglio di una non-relazione, di un credersi un assoluto, un totale, un identico, una intoccabile entità pre-potente. Che nasconda la propria potenza in questa priorità staccata dal resto delle relazioni con il mondo e che per questa priorità – la relazione pre-potente – instauri solo in un secondo momento – dall’alto, o dalla sua posizione di chiusura e di protezione, di accumulo di potenza – una relazione di pre-potenza, di forza a priori, di forza non giustificata, di violenza. Una relazione negativa che più che relazione (nel cui seme c’è insito legame, rispetto, riferimento, biunivocità) è giusto chiamare propriamente e per i nostri scopi coercizione, costrizione, coazione, repressione: un abuso di autorità. Tipico, in molte culture, della relazione maschile, paterna. O di quelle anti-ecologiche (come quelle capitaliste e neoliberiste).

Quando parleremo di una Civiltà delle Relazioni intenderemo perciò la relazione nella sua prima accezione. Di intersezione. Di ciò che rompe la chiusura, l’isolamento. Che fa avvenire lo scambio con l’altro da sé. Ciò che di solito fa una buona madre. E un buon padre. E, in genere, ogni organismo vivente quando mette davanti a sé la simbiosi rispetto alla lotta. L’interazione alla coazione. L’intersezione alla separazione. La cooperazione alla gerarchia. La pace possibile alla guerra per scelta, sempre. Il collettivo all’individuo. La moltitudine all’impero. Una buona relazione è sempre un trasferimento di forza, competenza, amore, gioia, senza violare le diversità dell’altro, o le sue difficoltà quando è più debole. È un intersecare le forze. Senza ricorrere a mediatori (se si può: correndo il mediatore il rischio di diventare un “intermediario”, con tutti i pericoli connessi). Relazione fondata quindi sulla fiducia, non sul contratto. Una civiltà perciò che non ci sottrae ai nostri istinti (egoici) e che non ci reprime con delle privazioni (Freud) o delle colpe originarie (dottrine confessionali). Consapevoli della fragilità biologica – tendente a conservare l’ego – e della scelta simbiotica – come migliore soluzione per le comunità umane.

Una Civiltà delle Relazioni si fonda su alcuni nodi teorici che cercheremo di sciogliere in questo contenitore di pensiero, le cui soluzioni sono ancora oggi – come lo erano un tempo – obiettivo di molte comunità civili non fondate su rapporti di forza e di pre-potenza, ma di fiducia, prossimità e – termine piuttosto inconsueto – indomesticità (la cui radice è sia la domus latina che il damao greco che portano alla casa del dominus e alle “dominanze” di una vita troppo domestica, addomesticata, stanziale, lontana dalla natura). Ecco la lista – work in progress – dei più importanti, con un cenno al futuro sviluppo della soluzione proposta.

  • la Res-Comune, spesso contrapposta alla Res-Pubblica;
  • la Civiltà delle Relazioni è altra cosa dalla Civiltà delle relazioni negative, civiltà fondate su rapporti di forza violenta e pre-potenza che potremmo propriamente chiamare Civiltà delle Coercizioni, delle Costrizioni, delle Coazione, della Repressione (termini in uso per le relazioni negative), le quali generano ingiustizie, frustrazioni, privazioni, spesso per l’intervento, l’abuso di mediatori. Le relazioni positive fra le parti sono frutto di fiducia e prossimità tra le parti, riducendo al minimo sindacabile richiesto dalla complessità l’intervento di una terza parte che genera l’elemento pubblico: l’artificio tra la “naturalità” del rapporto;
  • la Civiltà delle Relazioni è altra cosa dalla Civiltà degli Assoluti o delle Identità; le relazioni vanno dal prossimo al remoto, dal basso all’alto, per generare comunità e convivenza, senza la necessità, mai, di partire o di arrivare ad un Assoluto, ciò che è massimamente remoto e aprioristicamente precostituito, sempre Identico a se stesso: la possibilità esiste, ma non è necessaria per partire o per arrivare;
  • a metà strada tra la res-comune e la res-assoluta, ci sta la res-pubblica, con i suoi pregi e difetti;
  • l’indomesticità come termine di relazione che riunisca in sé il concetto di indomito (non domo) e di poco domestico, dove la selva e la casa (meglio, il domicilio), la natura e l’artificio, conoscano il giusto equilibrio, per evitare che un elemento diventi dominante o addirittura esclusivo su e dell’altro, come gli spazi addomesticati di una civiltà troppo domestica, troppo sottomessa al proprio signore, sia esso la comodità della domus o il volere del dominus, tipico delle civiltà troppo stanziali e chiuse in se stesse;
  • la fiducia e la prossimità, come rivalutazione della relazioni tra persone senza l’intervento/abuso di mediatori, con grande attenzione alla vicinanza tra i luoghi, alle geografie concrete dei territori, spesso spazzati via da lontananze artificiali, ledendo le autonomie degli stessi;
  • la geografia concreta: «camminare insieme nei territori» come base di partenza, soluzione, per la salvezza dei luoghi devastati dove si vive, come pratica imprescindibile per poter tornare a vivere bene.
  • la proprietà sufficiente (il piccolo domus) e l’improprietà comune, che giustificano l’esproprio delle grandi proprietà (i domini), dei grandi accumuli di risorse (capitali), raggiunti una certa soglia, a beneficio dei più poveri;
  • il lavoro solidale e funzionale, contrapposto al lavoro a tutti i costi e al lavoro come fine, con gli estremi del lavoro pubblico che porta alle plurideleghe e al lavoro ipertutelato, trascurando la forza e il concetto di lavoro comune: lavorare tutti, lavorare meno;
  • la convivialità, frutto delle relazioni, che genera a sua volta un’assistenza e un’accoglienza di comunità e di prossimità (un mutualismo delle piccole cose e di ambito familiare, paesano, di quartiere),  anche per le persone in transito, ribaltando e rendendo obsoleto il concetto di “pensionamento” – totalitario –  delle persone e la res-pubblica che lo sostiene;
  • il rifiuto dell’assistenzialismo di terze parti, nelle sue forme di grande centro di Potere, “addomesticante”, come lo Stato Repubblicano, spesso alleato con il Potere – le grandi concentrazione di poteri – che lo Stato di Diritto dovrebbe combattere;
  • all’interno della crisi dello Stato sociale contemporaneo repubblicano, dove la funzione pubblica ha sostituito il comune e il suo rapporto primigenio con la geografia, generando le relative lotte territoriali in corso, capire le condizioni per lail superamento della forma istituzionale repubblicana: l’inizio della trasformazione, della «lunga marcia» dalla res-pubblica alla res-comune, dove il rapporto burocratico di socialità che pervade le “classi in lotta” si trasforma in relazione di comunanza. Di geografia concreta tra gente e territori. Di intersezionalità.
  • il rifiuto della delega incontrollabile a una terza parte incondizionata (la mediazione tout court, la fiducia spersonalizzata, l’intemediazione), costruita dalla mente dell’essere umano, sia essa di ordine fisico (come le cento invenzioni legate all’ordine economico), sia essa di ordine metafisico (come le cento invenzioni legate alle divinità istituzionalizzate dalla confessioni); perciò né dicta-tori, né pro-feti, né super-burocrati, alfieri della pre-potenza;
  • il rispetto di tutto ciò che è limite per l’essere umano, e delle relative esigenze che nascono dal confronto diretto con questo limite, sia esso di ordine ambientale (questioni legate all’ambiente), sia esso di ordine personale (questioni legate alla religione, nella sua forma disarmata qui proposta);
  • la trasformazione continua del Diritto Pubblico in Diritto Comune. Purtroppo la storia dimostra che la “Legge non è uguale per tutti”. Facciamo almeno che sia comune, sostituendo al concetto di eguaglianza il concetto di comunanza, ossia che l’eguaglianza nelle opportunità e negli obblighi – l’apriori nella legge scritta – sia sempre portata in atto mediante la comune partecipazione al diritto, ovvero mediante una partecipazione attiva alla cittadinanza (la civis) senza la delega assoluta alle terze parti, alle avvocature. Le legge è comune per tutti significa che la legge diventa un aposteriori e si fa in primo grado orale e vissuta, costruita giorno dopo giorno dai corpi attivi, senza coercizione apriori. L’aposteriori deve avere la forza dell’oralità, del dire e del fare le cose senza il bisogno di una scrittura e del relativo controllo. La fiducia al primo posto. Gli avvocati all’ultimo;
  • l’eguaglianza, a priori, di fatto non esiste, se non di fronte alla morte. Paradossalmente, l’unico diritto inalienabile e incontrastabile è il diritto alla morte, anche quando qualcuno sembra ritardarlo rispetto al volere del singolo. Tutto il resto, va creato giorno dopo giorno, fondandolo su quel primo diritto. Quel primo diritto genera l’espressione “la Legge è uguale per tutti”. L’ideale di una civiltà e delle sue relazioni è di poter giungere a quell’appuntamento come meglio si crede e si vuole, rispettando i percorsi degli altri nel mentre si percorre il proprio. Questa costruzione continua genera l’espressione “la legge è comune per tutti”. Su quel rispetto si fondano tutti i diritti secondari su cui si costruiscono l’eguaglianza a posteriori e una vita civile. Un’eguaglianza a posteriori significa una comunanza di intenti e di possibilità, nella diversità dei percorsi e dei caratteri. Ma perché questo ideale in qualche modo si affermi bisogna continuare a creare spazi di diritto comune, lasciandosi sempre meno incantare da terze parti che vivono di conserva – spesso lucrandoci – sullo spazio di diritto creato da prime e seconde parti: gli autentici attori della vita civile;
  • la riformulazione di concetti fondamentali, tra cui:
    autorità, come percorso coerente di una persona, gruppo, istituzione – in quanto autori – che emana forza simbolica (la fiducia di prossimità) utile alla civiltà delle relazioni;
    religione, come esporsi al limite senza ottenere risposte definitive, consapevoli della propria fragilità condivisa con tutte le persone/creature che popolano il mondo;
    i due concetti sono sottilmente legati: più la fiducia perde prossimità, più essa si trasforma in fede, in legame astratto e per questo controllabile da terze parti;
    capitalismo organico come sovraumanismo, o suprematismo umano, che vada oltre il semplice capitalismo “ecomomicista” quale monolitica espressione del neoliberismo, ed esprima invece lo stile organicista di una società malata e omologata dal modello occidentale dove tutti sono piccoli o grandi capitalisti che distruggono la natura, l’alterità, per consumare non solo essa, ma pure se stessi nell’illusione di essere qualcuno, superiore alla propria fine;
  • «le montagne sono i luoghi di resistenza del mondo»: l’abbandonare le grandi città, le grandi urbanizzazioni omologanti, a favore dei piccoli centri, attenti alla difformità e difficoltà peculiari dei territori e delle genti, come mantra rivoluzionario per salvare il pianeta Terra dalle esagerazioni artificiali dell’essere umano;
  • ultimo, ma non meno importante, una civiltà delle relazioni si fonda su uno sguardo protostorico, che considera la storia sociale dell’essere umano dall’apparire delle sue fonti (preistoria) e che perciò guarda la storia vicina a noi come una frazione dal valore limitato e da prendere con il dovuto peso specifico: certe istituzioni e abiti mentali degli ultimi 20 secoli possono e devono essere messi in discussione, anche dall’uomo moderno e contemporaneo, che spesso di si illude di essere solo lui la Storia. Quando invece è solo un battito di farfalla di cui si può, volendo, contenere o addirittura sopprimere gli effetti, quando degenerano nelle peggiori forme della civiltà che noi conosciamo, illusa, infatti, di essere solo lei – civiltà – la Storia.

Una Civiltà delle Relazioni concrete – lo sciogliersi dei nodi qui sopra esposti – potrà essere l’auspicio per ciò che a noi piace chiamare Rivoluzione/Democrazia dei Corpi Attivi.