L’individuo è l’indiviso soggetto al pericolo di grandezza imperitura. Ossia di vita indivisa e non soggetta al declino del tempo e delle energie. La pre-potenza in nuce.
Questo concetto è alla base di molte culture umane identitarie, dove l’essere umano che nei fatti è indiviso, ma non imperituro e immutabile, ha bisogno di identità per contrastare la mutabilità della singola esistenza, fino e oltre la morte. Nasce così l’individuo. Mutabile, ma dotato di identità. E di proprietà, anche superiori alle proprie esigenze.
Esso è la base di tutte le culture monoteiste (il mono-teismo è infatti una forma di individualismo teologico) che assicurano la vita imperitura dell’individuo, come persona indivisa, al di là della fragilità biologica (e della mai riconosciuta “formazione multispecie simbiotica”).
Al concetto di individuo in una Civiltà delle Relazioni va sostituito il concetto – dissolutorio, per la dissolvenza implicita – di “involucro”: indiviso con consapevolezza del proprio limite, senza pretese di grandezze imperiture. Ad esso si associa una rivalutazione e una riformulazione del concetto di egoismo. L’egoismo diventa legittimo quando mantiene l’indiviso libero dalle manie e dalle pratiche di grandezza, diventa illegittimo (nel senso della pratica, non della legge, ossia del danno recato ad altri) quando sconfina nello spazio altrui per alimentare la propria “individualità”. Tale forma di egoismo alcuni studiosi la chiamano “egotismo” e l’individuo che l’alimenta, “egoico”.
Il precetto cristiano – ama il prossimo tuo come te stesso – ritenuto un classico dell’altruismo nasconde un inno all’individuo. Il “te stesso” rafforza la visione della persona come individuo, a scapito della persona come involucro – in transizione – di relazioni ed esperienze. Il “te stesso” va cambiato in “se stesso”, liberando l’azione dall’individualità della prima persona che dice alla seconda di fare quello che andrebbe bene per lei.
Ama il prossimo tuo come se stesso, e molti dei problemi che affliggono le società umane sarebbero risolti.
L’essere umano, per sua natura, di fronte alla fragilità del suo involucro, tende a “individualizzare” la sua identità in movimento, per creare, grazie ai rifugi della mente e alle sue pratiche materiali e immateriali, regni di individui. Con tutti i pericoli annessi.
Alla fine dei conti, non è tanto la paura di morire che conta, ma la paura di scomparire. La paura che la realtà scompaia insieme con chi la vive e la genera.
Questo ci insegna la realtà costituita dalla nostra mente. L’antidoto trovato dalle religioni confessionali e dalle dottrine “spiritualistiche” in genere, l’individualità, l’indivisibilità perenne dell’io, l’anima che conserva il simulacro delle azioni del corpo, è un antidoto pericoloso. Un antidoto solo per la prima paura. La più ancestrale.
Non c’è antidoto alla seconda paura – paura teoretica, si potrebbe chiamare – ma solo contemplazione. Se diventa serena, si genera libertà. Se diventa inquieta, genera angoscia. Spesso ci si sofferma e si cade sulla prima paura. La seconda è riservata a pochi e per chi la controlla, tale controllo libera dall’ossessione dell’individualità.
Alberto Peruffo | Montecchio Maggiore | VI
PRIMA PUBBLICAZIONE 21 SETTEMBRE 2016
modifiche // 28 gennaio 2020
7 settembre 2021
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