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Il concetto di religione va rifondato.

Religione è vivere sul limite (per la trattazione di questo passaggio, in modo articolato, rimando a L’arte armata e la religione disarmata). Un sentimento fondamentale per ogni essere umano, anche per l’ateo che si rifiuta di affacciarsi sull’abisso del limite e che spesso confonde la religione con la confessione o la dottrina e si corazza con la parola laico per trovare terreno di confronto con i credenti di tali costruzioni. Infatti, sia i credenti delle confessioni sia gli atei possono dirsi laici, ovverosia persone che hanno trovato il proprio anestetico al limite nel buon senso della comunità: la pubblica opinione.

La laicità (l’essere indipendente da una gerarchia ecclesiastica o da un discorso ultimo, affidando a terze parti la verità del discorso o la neutralità sulla questione, il non volere affrontarla) è una legittima debolezza dell’individuo rifugiatosi in società che accomuna il credente in una realtà superiore (con la quale tuttavia continua a mantenere la sua relazione personale, riconoscendo l’autorità ecclesiastica, la sua sottomissione) e l’ateo che rifiuta il confronto finale con l’abisso, con un discorso ultimo, anche con il solo restare in ascolto di fronte al niente (atteggiamento che abbisogna di grande forza). L’unica soluzione è disarmare la religione di autorità superiore (e dalle sue violenze), in funzione di un controllo sociale, e di essere esposti al limite senza alcun paramento metafisico, compreso il rifiuto di Dio e la delega al pubblico del coraggio individuale che quel rifiuto nasconde. Questo atteggiamento io lo chiamo religione. Alcuni lo chiamano “spiritualità”, dimenticando tuttavia che nel termine “spirito” si nasconde un probabile – per taluni auspicabile – abbaglio metafisico. La religione invece è essere tra due mondi, sul limite, l’estremo legame, la reliquia del nostre esistere. Senza affidare ad altri questa ultima e sottile relazione.

La religione è l’esporsi personale, della persona, della coscienza, senza mediazioni, alla violenza dell’abisso. È prendere su di sé la violenza dell’immediato non esserci, un riconoscersi come individuo sull’orlo della divisione. Assumere su di sé questa divisione incombente, questa violenza in potenza, che può diventare atto in ogni momento, significa risparmiare la violenza al resto del mondo. Chi non è religioso e delega ad altri la soluzione di questa esposizione, in nuce è un violento.

Il laico accetta la confessione di stato e/o lo Stato come confessione, l’importante è che – i due grandi accentratori del potere della tradizione moderna – siano separati uno dall’altro. Chiesa e Stato (da non confondere con lo stato di diritto), in una civiltà delle relazioni vanno superati, aboliti. Gli individui devono riprendere con sé il confronto con il limite e la responsabilità sociale che questi confronto comporta, travalicando il buon senso “asettico” della comunità infuso da centri superiori. Ogni persona deve essere produttrice di senso senza sottomettersi alle garanzie elargite da una dottrina superiore o da uno Stato che ti proclama libero, protetto e non perseguibile. Il diritto non nasce dal cielo, da un’autorità superiore, ma dal senso delle tue azioni. Da come esse creino lo spazio per esserne degno. Il diritto si acquista dopo un dovere. E si dona a terze persone non capaci di crearsi uno spazio di diritto da sé, ma che ne risultano inevitabilmente degne entrando nel tuo spazio di civiltà. Entrate in questo spazio esse stesse devono partecipare alla costruzione del diritto. Contro il dominio del pre-potente, sempre in agguato e spesso alleato dei grandi accentratori.

La dignità di una persona nasce innanzi tutto dal momento in cui cui essa prende atto del proprio limite: è un’affacciarsi allo specchio, un riflettere se stesso e vedere il limite di sé erodersi nel tempo, scoprendo la coerenza di un’identità in movimento, prossima al limite ultimo. È, essenzialmente, un fatto religioso. Che l’uomo “civile” estende agli altri.

Prendere in giro la religione, en passant, è prendere in giro il limite, sé stessi. Al di fuori delle dottrine e delle confessioni, che possono tacciare questo atteggiamento di blasfemia, al di fuori del gioco intelligente dell’ironia, che produce provocazione, questo comportamento è semplice sciatteria. La sciatteria non è volgarità, ma menar il can per l’aia perché non si ha niente di meglio da fare per cambiare lo stato delle cose, che può essere il pensiero delle tradizioni e delle confessioni, delle dottrine. Molti satiri fanno questo credendo di criticare il sistema, quando invece soddisfano le pulsioni voyeristiche personali e quelle dei potenti che si sentono importanti perché offesi e i primi perché liberi. La storia non conosce satiri che hanno cambiato il corso delle cose, ma solo satiri bastonati od osannati, a seconda degli umori dei potenti, che spesso sono pre-potenti intolleranti alle velenose frecce della satira.

Di fronte alla sciatteria si può scegliere di guardare o di volgere lo sguardo da un’altra parte. Quando dico ai miei figli di non guardare certe nefandezze satiriche che la televisione propone non difendo loro dalla blasfemia (non ho né dottrine né confessioni), ma dalla sciatteria. Preferirei che cambiassero canale o che uscissero fuori, in tutti i sensi, per non essere inebriati, rincitrulliti, da chi li mena a zonzo per l’aia televisiva: l’accademia dei “domestici” manovrati dal potere.

L’atteggiamento religioso, in ascolto silenzioso –  l’esporsi all’altro senza paramenti, prese in giro, surrogati – è il contrario della sciatteria. Esso deve liberare la religione e il suo concetto da tutto ciò che è colpa, perdono, dominio, fustigazione, abominio sulle debolezze degli esseri umani. Di fronte al limite si può sorridere, essere gentili e, certe rare volte, legittimamente, ebbri.

alberto_peruffo_CC
Alberto Peruffo | Montecchio Maggiore | VI
PRIMA PUBBLICAZIONE 31 GENNAIO 2015

modifiche // 3 settembre 2015
26 settembre 2015
4 novembre 2015
18 novembre 2015
9 dicembre 2015
21 febbraio 2016
8 giugno 2016
9 giugno 2018
21 dicembre 2019

nota del 19 settembre 2021
«La tessitura non è né laica né religiosa; è un’attività sensata. Stabilisce e manifesta le connessioni della vita che servono a mantenere le parentele, il comportamento, l’azione relazionale, la hozho, per gli umani e i non-umani. Il mondeggiare situato è continuo e perenne, non è né tradizionale né moderno» – dice Donna Haraway, dove l’accezione di “religiosa” è ancora quelle classica. Basta cambiarla, o intenderla bene, ossia eliminare il falso problema metafisico, oltremondano, e il pensiero “fila”. Tesse nuovi mondi sensati.

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