Politicamente parlando, non esiste l’autonomia dei popoli, ma l’autonomia dei territori. I popoli passano, mentre i territori restano. Fondare l’autonomia sul concetto di popolo è molto pericoloso. Perché il popolo è un’idea, non un fatto concreto. E dietro a quell’idea ci può stare di tutto, perfino il distacco totale dalla geografia, dal luogo, dal territorio.
Se per “popolo” si intende – legittimamente e strategicamente – le persone che vivono in un determinato luogo, le genti del territorio, si capisce che la deleteria idea che l’identità di un popolo sia qualcosa di fondato su qualcosa di imperituro, di a-priori, su qualcosa di completamente staccato dalla fisicità del territorio, muore. L’identità [v. IDENTITÀ] infatti è un concetto estremamente pericoloso se non si riesce a dargli una declinazione dinamica e fisica: la permanenza di ciò che è in movimento, in transito, su territori concreti.
L’autonomia delle genti – il potere di autodeterminarsi secondo la propria norma in relazione di interdipendenza con il necessario altro – deve perciò sempre essere un’autonomia dei territori in cui le genti vivono e abitano. I territori non esistono senza le genti, e le genti esistono solo sul/nel territorio.
I territori sono una composizione di genti e di luoghi, l’interazione reciproca tra la terra e i suoi abitanti: «I territori siamo noi e quello che resterà di noi: una compenetrazione imprescindibile, inalienabile, tra la terra e le sue genti. L’una forma le altre e viceversa, attraverso uno scambio reciproco tra molteplici realtà transeunti, impermanenti, destinate a passare, diverse per qualità, ma soprattutto per ordine di grandezza e di durata nel tempo. La terra dura più delle genti.
Le genti – dei territori – siamo noi: studenti, contadini, operai, artigiani, cittadini attivi e uomini liberi che sono tali per avere i piedi per terra. Nella terra e attraverso la terra. Una cultura e una pratica che arriva dal basso, si coagula insieme, si unisce e si alza senza timore, con la più alta dignità, per richiedere giustizia e libertà» [da una scrittura per un futuro progetto politico che valorizzi i territori].
Non possiamo combattere per la nostra singola-contingente-temporale “autonomia politica” dal momento che presto noi moriremo e lasceremo posto ad altre persone che abiteranno in questi spazi, luoghi. Non possiamo richiedere l’autonomia di un popolo, di un’idea, che sia staccata dal territorio in cui nasciamo e viviamo. E che lasciamo in eredità.
Mettiamo a memoria questo adagio scritto per le terre in cui vivo, soggette alla più grande contaminazione delle acque potabili nella storia d’Europa: «I popoli passano, i territori restano. Spesso devastati. Dagli stessi popoli». [v. link in calce].
I Popoli – con la p maiuscola – “senza terra” – sono i più problematici, o perché la cercano senza rispettare chi la abita, o perché quando la trovano non la conoscono a fondo tanto sono concentrati su se stessi, oppure perché semplicemente ci passano sopra, estraendo ogni cosa.
Noi siamo – per gran parte della nostra formazione culturale – la geografia dove viviamo, dove abitiamo. Spesso dove nasciamo.
Spesso ci dimentichiamo che siamo – alla fine – la geografia che attraversiamo, dalla nascita alla morte, e che siamo tutti quanti nomadi. Monadi che perdono piano piano la loro identità dissolvendosi nella polvere del mondo.
Volere invece essere una qualche identità culturale – un Popolo – solo per il fatto di nascere – ad esempio – dallo stesso sangue “conterraneo” (concetto applicabile solo per qualche generazione finché non si perdono le caratteristiche “esotiche” rispetto alla terra che ci ospita) non solo è un’idea che non sta in piedi, ammazzata proprio dallo scorrere del tempo, ma nasconde in nuce il più grande male che l’essere umano può fare a se stesso: pensare di essere un’identità, un qualcosa, completamente avulso, distaccato dalla terra, dalla geografia, dalla fisicità del mondo, dalle sue relazioni, in altre parole un essere superiore. E questa superiorità è data – seguendo il ragionamento identitario – per via parentale, o peggio – quando non è elettiva – per via soprannaturale – ossia per discendenza da un altro superiore. Quindi per nascita o pre-sunta discendenza (in entrambe si nasconde la pre-protenza) da creature superiori. Con il rischio di distaccarsi completamente dalla fisicità del territorio, di misconoscerlo, distruggerlo e pensare solo al dominio su qualcosa o qualcuno. Grazie a quei prerequisiti di superiorità.
Capita nelle gerarchie identitarie. Capitò nel nazismo. E in tutte le ideologie che credono in qualcosa di superiore e imperituro. Tradizioni comprese. Siamo invece figli della terra. E su questo “basso”, rumore di fondo, moriremo. Assumendo la forma della polvere fisica, riatomizzata agli elementi naturali conosciuti. I Greci usavano la parola “mortale” come sinonimo di uomo: “il Mortale”. Il Cristianesimo ha cambiato tutto, trasformandoci in immortali, in creature del cielo separate dalla terra. Siamo invece ancora e sempre un popolo di mortali. Che non è un Popolo e in quanto tale non può essere portatore di autonomia, quanto invece lo possano essere i territori, che durano di più e che fondano le loro leggi – le loro “normalità” – sulle regolarità “naturali” espresse da quelle stesse terre.
Tutti capiamo la tossicità implicita che ci sta dietro a una “terra promessa” e ad un popolo “eletto”. A meno che questa promessa non sia una rivendicazione di giustizia per un sopruso ricevuto (essere stati tolti dalla terra natia) in vista di una riconciliazione con le origini (come succede per il zion dei neri americani difesi da Marcus Garvey).
Ora – per fare un caso concreto dell’abuso e dell’abominio del concetto di popolo – capita che ad esempio nella Regione Veneto, dove ogni tanto ricompare il discorso sull’autonomia, si parli di autonomia di un Popolo, del Popolo Veneto, di Europa dei Popoli, e che ad esempio si consideri Veneto un bimbo nato da genitori Veneti (anche se abitano a Napoli) ed extracomunitario un bimbo nato da genitori africani che lavorano da molti anni in Veneto, sporcandosi le mani su queste terre. Nelle concerie o nelle fabbriche di morte. Chi di questi due bimbi apparterrà al futuro popolo veneto se entrambi un giorno abiteranno in Veneto? Al popolo-popolo, quello genuino, nessuno dei due se non si sporcheranno le mani nelle terre venete e non accetteranno di vivere secondo il modus operandi di questi luoghi. È evidente che il concetto di popolo non sta mai in piedi – se non per poco tempo – quando lo si vuole legare a un fatto incontrollabile slegato dai territori (come quello del sangue parentale) e se proprio lo si vuole fare stare in piedi “idealmente” esso è un concetto legato a un fatto culturale e ad eventuali scelte di appartenenza culturale, più che fisico-geografica. Ma la cultura – che di fatto è una seconda natura – è un dibattito aperto, soggetto a mille interpretazioni e supposizioni di superiorità, a soluzioni mediate dalle tradizioni, mentre la geografia (e la risposta ad essa) è un fatto primario, immediato, in corso. Come è un fatto che poteri centrali troppo forti, centralizzati, slegati dalle esigenze fisiche dei territori (che sono poi risposte cognitive concrete), spostino il baricentro della civiltà di un luogo verso il “bene pubblico” – astratto e delegato – rispetto al “bene comune” – concreto e diretto. Verso il potere della burocrazia e dei partiti (assembramenti astratti) che sono funzione della gestione delle possibilità, del Potere con la P maiuscola: il Potere Astratto dai territori. In questo caso l’abuso del concetto di popolo serve proprio per estrarre valore dai territori. Sfruttarli e impoverirli in nome del Popolo, a favore di una politica astratta dominata dai potenti di turno. Quello che è capitato in Veneto – la regione italiana più identitaria (ma anche tra le più inquinate del mondo) – negli ultimi vent’anni.
Tra parentesi. Propriamente esiste una «cultura veneta«, non un «Popolo Veneto». E se proprio si vuole parlare di “popolo veneto”, sono le genti che abitano le terre del Veneto, nella cui commistione tra cultura, tradizioni popolari e geografie producono, esprimono, un “modus operandi” di massima, una mentalità “tipica” che caratterizza per lo più – come nota dominante, ma non totalizzante – questa parte di mondo, che di fatto è stato ed è pure un continuo crocevia di genti e modi, da secoli e secoli. Una stratificazione-sedimentazione culturale adottata o pure rifiutata da chi si trova ad abitare questa terra – il Veneto – o a lasciarla, esportando detta stratificazione-sedimentazione in altre terre. Tutto scorre, anche la cultura di una terra. Non facciamoci illusioni imperiture. Il Veneto sarà spazzato via dalla macchina del tempo come ogni altra regione del mondo. O dei mondi. Un tempo remotissimo eravamo tutti africani. Ora siamo veneti, italiani. Domani saremo frazioni mediterranee, che vivono su alture circondate dai mari. Cerchiamo di vivere bene il tempo di ogni regione. Senza eccessi di potere e del conseguente e inesorabile accelerato consumo. Di sé e degli altri.
In conclusione, da quanto esposto sopra, bisogna chiedere l’autonomia dei territori, e non dei popoli. Per questo lo stato res-pubblicano del XXI secolo – troppo grande, centralizzato, divenuto vittima delle sue stesse leggi e di coloro che devono alimentarle – non ha più ragione di esistere in un civiltà delle relazioni dove gli “stati di diritto” danno vita a costituzioni che sono partite sì dall’esigenze dei territori post grandi guerre, esigenze concrete, ma che con l’andare del tempo, rischiano oggi il “distacco”. Esigenze primarie che invece devono restare il fondamento del vivere civile grazie a cui tutti i territori possono continuare a legarsi in relazioni di interdipendenza – anche se “distanti”, che non significa “distaccati” – che significa vivere bene insieme nonostante le forze complicatrici e disgregratici che la complessità delle relazioni porta con sé, se essa stessa – complessità – non viene gestita con intelligenza e “concreta relazione” – conoscenza reciproca – tra le parti, le genti, i luoghi, mediante progressive cascate di prossimità.
L’autonomia dei territori non può passare i limiti fisico-geografici delle buone relazioni di prossimità, da testare zona per zona. L’Italia, con le sue 80 province e 8000 comuni, potrebbe far gestire con maggiore autonomia questi territori configurandosi come confederazione nazionale res-comunale dove ogni provincia manda in un ipotetico parlamento nazionale 1 Deputato e 1 Senatore, espressione “revocabile” del territorio, non dei Partiti centralisti, dei partiti burocratocentrici, fatti della stessa pasta concettuale di cui abbiamo detto per il concetto di Popolo, concetti che niente hanno a che vedere con il territorio, con la conoscenza di esso, ma solo con idee e direttive dettate dai gerarchi del Potere. Le idee e le direttive servono solo se nate e applicate su geografie concrete, conosciute palmo a palmo, vissute faccia a faccia. Serve quindi un Parlamento – se proprio si deve fare come espressione delle assemblee territoriali dirette – per coltivare le interrelazioni. Le interrelazioni, non il Potere. Niente di più. Un Parlamento dei territori, non dei Popoli, non dei Partiti. I partiti possono anche elaborare idee, ma queste devono essere applicate ai territori, non alla conquista del Potere, alla realizzazione dell’Idea.
Si capisce che questa idea di Confederazione Res-Comunale Nazionale ci porta fuori dal concetto di Stato-Nazione Res-pubblicano. [v. LA MORTE DELLA RES-PUBBLICA]
Quindi, potere ai territori, non al Popolo. Potere ai territori e alle genti che “realmente” lo abitano – il concetto di “realtà” porta con sé il concetto di “attenzione” – non al Popolo, entità astratta anche quando la si vuole far passare per l’esigenza popolare che i territori esprimono contro i grandi poteri. L’esigenza di lotta, di lavoro, di sopravvivere, nella civiltà artificiale in cui viviamo, spesso non è conoscenza della terra. Ma inerzia di massa. Distaccata dalla natura fisica dei territori.
Il Padroncino che si crede Padrone, l’Operaio chiuso dentro a una Fabbrica, l’Impiegato dentro a un Ufficio, l’Agricoltore industrioso circondato da Monocolture, l’Agente che filtra la Borsa, il Commesso che negozia le Merci, l’Operatore tra Macchine e Mura, il Burocrate cultore di Carte e di Leggi, l’Artista che fu Situazionista: tutti Popolo senza Terra. Una Massa di Inerti. Inertizzati. Tolti dalla Terra. Che cos’è, in ultima analisi, il Capitale? L’Astrazione dalla Terra. L’Estrazione del Valore dalla Terra messo in un Grande Magazzino, senza fare conto degli Scarti. Energia Potenziale, Massa di Energia non dotata di senso. Un Artificio senza fuoco. Una Potenza senza terra. Una Massa senza apertura nello Spazio. Con il rischio di eliminare la stessa terra, perché degradata, divenuta scarto, in favore di una sua astratta e di per sé inutile solidificazione. Accumulazione. In forma di denaro, oro, od altro surrogato. Un cumulo inerte, circondato da scarti, spesso non visibili, insabbiati. Un Capannone Spannoveneto dove la Terra non esiste più. Fuori, il Deserto senza genti. Solo Banche per immagazzinare il Potere e Pedemontane Mafiose, Grandi Opere di Trasporto o altri manufatti per far circolare la Merce. Slot machine. Sopra la Terra. Sopraffatta dalle sue stessi genti. Merci che circolano, gente che muore.
Il Popolo non conosce la terra, gli abitanti reali sì. Il burocrate e il Signore non conoscono la terra, l’indigeno, meglio, l’auto-ctono, colui che è frutto della “stessa terra”, sì. Il Signore sfrutta la terra e i suoi servi, la persona libera invece la cura. Cura la terra e tutte le sue relazioni. Non solo la cura, fruttifica e gioisce senza padroni.
Potere ai territori, non ai suoi padroni. Siano essi servi o signori, Popoli o Imperatori. Potere ai territori, alle libere genti, ai corpi attivi, non al Popolo o ai Re.
Alberto Peruffo | Montecchio Maggiore | VI
PRIMA PUBBLICAZIONE 1 DICEMBRE 2020
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